Non è vero che si può morire ovunque! Questo è permesso quando a spezzare i fili della nostra vita sono gli incidenti imprevedibili o le guerre. Ma non si può morire ovunque quando a dar termine alla nostra vita è la malattia o la vecchiaia.
Sono ancora molte le persone con malattie terminali che muoiono in ospedale, dove non c’è la capacità di preparare e gestire il paziente sia nella situazione più in generale dell’imminenza sia dopo il decesso, degradando così un momento fondamentale della vita, anche per i parenti.
Per molti l’ideale è morire a casa. Esalare l’ultimo respiro sul proprio letto, magari con tutte le persone care vicine, avendo avuto anche un po’ di tempo per fare l’ultimo saluto… sarebbe bello. Ma spesso tutto questo si infrange di fronte alla realtà della malattia che richiede assistenza specialistica, oppure di fronte a difficoltà familiari che impediscono alla persona morente di poter vivere nella propria casa.
Così oggi, anche complice il progresso delle cure, esiste la questione di dove morire, proprio perché non si può morire ovunque.
La medicina e la tecnologia offrono possibilità che un tempo non esistevano e quindi la morte sopraggiungeva rapidamente e nella propria casa. Oggi queste possibilità determinano un allungamento della vita nonostante la mattia mortale, hanno reso più graduale e più lenta la fase terminale, determinando così nuovi bisogni di cura e di assistenza, spesso di elevata professionalità, che non si possono trovare in una famiglia non assistita.
Ma la dimensione medica non è l’unica ragione per cui non è possibile morire in qualsiasi luogo. Esiste anche una dimensione umana che deve essere rispettata. Questa dimensione riguarda i momenti di chi muore e i momenti di chi vede morire un marito, un papà, una mamma, un figlio, un fratello o una sorella… ecco perché non si può morire ovunque.
Così, esiste anche una questione familiare, data dal fatto che la famiglia moderna non è più preparata ad accogliere chi ha esigenze di cura, né ha la preparazione psicologica e culturale necessaria a vivere la morte senza mediazioni, riaprendo anche su questo versante la questione dei luoghi dove morire.
Per far fronte a questo nuovo aspetto della società, esistono delle strutture chiamate hospice, che accolgono i malati terminali e i loro famigliari. Queste, se capaci anche di rispettare la dimensione umana della morte e non solo quella medica e assistenziale, sono buoni luoghi dove oggi si può andare a morire. A Monza ne esiste uno, un buon luogo alternativo alla propria casa, dove si può vivere la morte.
Si tratta dell’hospice S. Maria delle Grazie, della delle Fondazione Don Gnocchi, situato in via Montecassino, al confine con il Parco di Monza, in un luogo estremamente tranquillo e circondato dal verde.
In questa struttura, vengono accolte circa 24 persone in fase terminale e viene offerto un vero e proprio contesto fatto di diversi ingredienti, che principalmente premettono al morente di soffrire il meno possibile (terapie palliative) e di vivere i suoi ultimi momenti in un ambiente di socialità, di umanità e di grande rispetto per tutto ciò che implica il morire e il vedere morire.
Gli hospice, come quello S. Maria delle Grazie di Monza che conosco molto bene, diventano oggi un nuovo e buon luogo dove poter morire, morire bene, soprattutto quando tante avversità si abbattono contemporaneamente sulla nostra vita.
Andrea Spatuzzi
Psicologo, psicoterapeuta
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