Monza, città del cappello, da sempre ha avuto un ruolo fondamentale nella produzione di questo accessorio tanto amato.
Chi indossa oggi il cappello? Alcuni anziani, alcune persone più eccentriche, alcuni artisti e sembra ora quasi inimmaginabile che 100 anni fa lo indossassero tutti!
Cosa è successo nel corso degli anni? Se visitate la mostra “Chapeau” dal 20 ottobre 2018 al 6 gennaio 2019 presso i Musei Civici di Monza (Via Teodolinda) potrete scoprire tante informazioni interessanti sul mondo del cappello, grazie al prezioso contributo del museo MEMB.
Fare un cappello era, oltre ad un duro lavoro, anche un’arte: il cappellaio era sia un operaio, sia un artista, perché doveva creare un oggetto che piacesse ai clienti, che fosse alla moda e che si distinguesse da quello degli altri.
La lavorazione del cappello di lana ha origini molto antiche a Monza: fin dal 1200 , soprattutto ad opera degli Umiliati, fu largamente praticata la lavorazione della lana, in particolare dei panni lana, un tessuto non tessuto, ottenuto per feltrazioni della lana.
Nel 600 gli artigiani monzesi diventarono i più importanti produttori di cappelli di feltro della regione, superando anche Milano. Poco tempo dopo l’unità d’Italia nel 1861, a causa dell’industrializzazione del settore,i laboratori artigianali vengono rapidamente sostituiti da cappellifici dove si affermano i principi della rivoluzione industriale, ovvero l’introduzione di macchine, la divisione del lavoro e la concentrazione della manodopera.
A Monza i cappellifici si specializzarono soprattutto in cappelli di feltro di lana prevalentemente maschili: il processo produttivo partiva dalla lana e arrivava al cappello finito attraverso più di 30 operazioni; era quindi un ciclo di lavorazione complesso che richiedeva tante macchine e numerosa manodopera.
I cappelli prodotti erano di molti tipi e colori per servire i mercati di tutto il mondo, per seguire la moda e dovevano adattarsi a tutte le teste, non dimentichiamolo: i venditori di capelli infatti viaggiavano con grandi valigioni pieni di modelli e affrontavano viaggi lunghi per vendere addirittura in tutto il mondo.
Tra il 1870 e il 1920 ci fu un periodo di forte crescita del mercato del cappello e si affermarono i grossi cappellifici grazie alla meccanizzazione della produzione: la crisi che seguì la Prima guerra mondiale e il rapido declino dopo la Seconda guerra mondiale fecero però chiudere la maggior parte di queste fabbriche e le poche rimaste non fecero altro che continuare a usare le stesse macchine senza poter fare nuovi investimenti.
Le fasi successive di automatizzazione hanno trasformato tanti altri settori industriali, ma non hanno toccato i pochi capellifici superstiti che sono vere e proprie fabbriche dove si lavora più o meno come 100 anni fa.
L’industria del cappello trasformò anche la città di Monza nella seconda metà dell’800: le tante botteghe distribuite in città passarono ad alcune grandi fabbriche che trovarono spazio al di fuori della vecchia cinta muraria, mentre il forte aumento della richiesta di manodopera provocò un afflusso dalle campagne e dei paesi circostanti e un forte pressione per la costruzione di alloggi per operai (che possiamo oggi vedere nell’area Cambiaghi o nelle corti di via Bergamo).
La rapida industrializzazione di Monza, legata soprattutto al cappello, avvenne non senza conflitti tra operai e padroni e la città fu tra le prime in Italia a veder nascere organizzazioni sindacali e associazioni imprenditoriali.
I cappellifici più importanti negli anni del boom del capello erano Cambiaghi, Cappellificio Monzese, Carozzi, Valera & Ricci: tutti ebbero un fondatore carismatico e quasi tutti,a causa della crisi del cappello e a volte dell’inadeguatezza degli eredi, cessarono la loro attività alla terza generazione.
Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale i cappellifici chiusero i battenti lasciando libere numerose aree industriali che sono state lentamente assorbite e trasformate nel territorio di Monza.
Il settore del cappello a Monza al suo apice contava più di 40 cappellifici per un totale di più di 5000 addetti e una produzione di 20 milioni di cappelli all’anno, di cui l’80% esportati.
La Prima guerra mondiale provocò una grande crisi del settore per il blocco delle importazioni di materie prime e delle esportazioni.
Dopo di essa ci fu una ripresa che fece sperare di tornare ai vecchi splendori, ma i profondi cambiamenti modificarono il modo di vestire: il capello cessò purtroppo di essere uno status symbol.
La Seconda guerra mondiale diede infine il colpo di grazia alla moda del cappello e nel dopo guerra le vendite crollarono vertiginosamente costringendo i capellifici a chiudere piano piano.
Come si svolgeva la vita di un cappellaio?
Il suo lavoro avveniva in ambienti polverosi e surriscaldati per la presenza di vapore: il cappellaio doveva in diverse fasi del processo mettere le mani nell’acqua bollente o maneggiare semilavorati bollenti e queste esposizioni provocavano spesso malattie polmonari, della pelle e vesciche alle mani.
Ogni operaio lavorava fino a 12 ore sulla stessa macchina e per rendere più sopportabili queste condizioni ogni persona teneva accanto un bottiglione di vino; invece prima di andare al lavoro faceva un’abbondante colazione con pancetta e sottaceti, tanto pane e una buona dose di “mista”, ovvero un liquido ad alta gradazione alcolica con grappa, marsala, vermuoth, menta e amaro digestivo).
A Monza la maggior produzione di capelli era costituita da feltro di lana e chi doveva lavorare il pelo animale (coniglio, lepre, castoro, lontra) doveva fare la filtrazione con una sostanza chimica tenuta rigorosamente segreta a base di mercurio. L’esposizione ai vapori di mercurio provocava idrargirismo con danni al sistema nervoso, da cui deriva la fama che tutti i cappellai fossero un po’ matti.
Era quindi un operaio specializzato, appartenente ad un ceto privilegiato: lavorava a cottimo 12 ore al giorno, ma scegliendo personalmente gli orari. Spesso quello che guadagnava veniva speso in grandi bevute fra amici alla domenica: capitava che al lunedì mattina non si presentassero al lavoro e il datore di lavoro doveva andare a cercarli, caricarli sul carretto e portarli al lavoro.
Il protettore dei cappellai era S. Giacomo: si narra che egli inventò il processo di feltratura della lana perché metteva della lana grezza nei suoi sandali per ripararsi dal freddo e questa, per effetto del calore e del sudore, si infeltriva.
San Giacomo si festeggiava il 25 luglio, con una messa nella Chiesa di San Pietro e Martire: dopo la cerimonia era abitudine recarsi in massa al parco per festeggiare insieme, mangiando, bevendo e ballando, senza percepire ovviamente la paga giornaliera.
Che mondo affascinante, vero? Se hai voglia di conoscerlo meglio, ti invitiamo alla visita guidata presso l’ultimo cappellificio attivo di Monza, Vimercati Hats, sabato 24 novembre alle ore 15.
Le bravissime guide di Art-U Associazione ti narreranno la storia di Monza, città del cappello, in un luogo davvero magico e avrai modo di vedere il processo di creazione dei cappelli.
La prenotazione è obbligatoria inviando una mail a: info@artuassociazione.org, il costo è di euro 15,00.
Sarà bellissimo, vi aspettiamo!
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